Quanti soldi ci vogliono per un chilo di sopportazione?

Il cliente non ha sempre ragione. Anzi, diciamo pure che quando si tratta di web design, difficilmente c’azzecca. Ma è lui che paga. E questo ci da la forza di ascoltarlo con buona educazione e buttare giù le numerose minchiate che ci propina come se fossero parte di un progetto divino infallibile.

E qui, come disse un tale, la domanda nasce spontanea: fino a che punto la controprestazione dei soldi riesce a sedare il senso di libertà che è insito nella creazione e nell’ispirazione di un web designer? Potremmo anche riformulare la domanda in questo modo: quanti soldi ci vogliono per un chilo di sopportazione?

L’articolo di oggi vuole ambiziosamente ragionare sul valore umano di ciò che facciamo e sull’opportunità di avere una soglia di tolleranza nella scelta e nella gestione del cliente. In parole povere, credo di poter sostenere (e dimostrare) che il successo di un web designer, al di là del suo talento e della sua esperienza, sia pesantemente condizionato dalla qualità del suo portfolio clienti, e che un sano e liberatorio “vafanculo” (con una sola f), quando serve, possa essere più remunerativo e rinfrancante del medesimo cliente e dei suoi soldi.

Alla fine chiuderemo in maniera più blanda e con un pensiero molto più articolato e complesso di un banale impulso liberatorio. Ma almeno nell’incipit un pò di fuoco istintuale ci può stare.

Fuori i bulli e le mele marce

I miei figli frequentano da più di un anno una scuola di taekwondo. Questo mi ha permesso di osservare da vicino un fenomeno curioso. Molti ragazzi si iscrivono in palestra. Ma pochi sono quelli che arrivano alla fine del corso. Alcuni abbandonano per scelta. Tutti gli altri vengono cacciati via dal maestro.

Ho visto ripetere questa scena decine di volte: il maestro parla con i genitori e dice loro che il taekwondo non è uno sport indicato per i figli. I genitori cercano di capire, fanno domande, ma la risposta del maestro alla fine è una ed irrevocabile: no, questa scuola non è per lui/lei.

All’inizio pensavo che il maestro prendesse le sue decisioni sulla base di una valutazione fisica o di abilità dei ragazzi. Poi, ho capito che non era così. In realtà, tutti quelli che sono stati allontanati avevano un problema di educazione e di integrazione con il gruppo. Erano bulletti, ragazzi poco inclini alla disciplina dell’arte marziale o comunque lamentosi, problematici nel rapporto con gli altri e naturalmente portati a perdere tempo e a farlo perdere anche agli altri.

Il maestro mi ha spiegato, un giorno, che se nel gruppo c’è una mela marcia, è meglio mandarla via subito, perché al massimo perdi una mela. Se invece ti ostini a tenerla nel gruppo, le perdi tutte.

Questo aneddoto mi è sembrato molto interessante, soprattutto per la similitudine con quanto accade nel rapporto con il cliente e con quello che ne consegue sul piano sia emotivo che professionale nel rapporto con gli altri clienti del portfolio. E credo che possa servirci più avanti per mettere a fuoco anche noi le nostre mele marce.

Il dogma sdrucito del cliente che ha sempre ragione

C’è stato un tempo in cui il cliente aveva sempre ragione. Era il tempo della produzione in serie, della gestione manageriale, della pubblicità calata dall’alto sopra le teste dei consumatori inebetiti.

Al ristorante, per esempio, anche il più piccolo dei capricci o un ripensamento dell’ultimo minuto sul piatto già ordinato, metteva la staff (camerieri, cuochi etc.) nelle condizioni di invocare il dogma del cliente che ha sempre ragione.

In albergo, al supermercato, al mobilificio e in tanti altri  luoghi di scambio commerciale, ancora oggi il cliente (non necessariamente insoddisfatto, ma banalmente capriccioso e indeciso) viene gestito con un approccio indennitario, che tenta cioè di predisporre un equilibrio nel rapporto che possa essere percepito come vantaggioso per lui, anche quando non ve n’è ragione.

Per esempio, la cliente insopportabile che per scegliere un paio di scarpe è capace di smembrare il negozio e di chiedere alla commessa persino di andarle a prendere le sigarette, ottiene quello che vuole proprio sulla base del dogma in parola. Ti fa perdere due ore per tirare fuori le scarpe da tutti gli scatoli presenti sugli scaffali (e altre due ore per rimettere a posto) e poi non compra. Dice che non è convinta. Ma non c’è problema. Il salmo del business recita che non c’è problema.

Eppure, lo sanno tutti che è una rompiballe. È così rompiballe che i commessi dei negozi dirimpettai fanno gli scongiuri perché non le venga il ghiribizzo di farsi un giro anche da loro.

Ma non si può dire che è una rompiballe. Guai anche solo a far capire una cosa del genere. Il cliente ha sempre ragione. Lo deve sapere. Lo deve capire. E se non lo ha capito, lo deve percepire dal modo in cui viene trattato.

La ragione è dei fessi

Ma c’è un altro dogma: la ragione è dei fessi. Che significa? Se uno ha ragione, ha ragione. Perché dovrebbe essere un fesso?

Il problema è la contestualizzazione delle parole. La ragione dei fessi è un modo di dire che porta con sé la sintesi straordinaria di una determinata tipologia di rapporti o di scambi, e non banalmente la via di fuga di chi non riesce ad avere ragione.

Le discussioni sono spesso improduttive. A certi livelli perdono di vista la materia del contendere e si focalizzano sulla vittoria dialettica. Succede anche con i clienti. Si parte da una valutazione seria sulle cose da fare e si arriva a sostenere di tutto pur di vincere la battaglia dialettica.

A che punto una discussione smette di essere utile? Difficile a dirsi, ma quando uno degli interlocutori intercetta questo punto e decide saggiamente di abbandonare lo scontro, l’altro ottiene una ragione di cui non ha che farsene. Una ragione vuota, inefficace, una ragione fessa.

Il sillogismo

Se il cliente ha sempre ragione e la ragione è dei fessi, se ne ricava che il cliente è sempre un fesso. Possibile?

Talvolta, si. E lo sappiamo bene. In quante occasioni abbiamo deciso di abbandonare una discussione (o di far prevalere le richieste insensate del cliente) per non trovarci a discutere di lana caprina? Quante volte ci siamo resi conto che il cliente non sa di cosa parla e che questa circostanza non ci aiuta a fare un passo avanti nel rapporto?

Chi non sa, non sa di non sapere

Chi non sa, non sa di non sapere. E con chi non sa di non sapere non c’è margine di ragionamento.

Come puoi spiegare a una persona cieca dalla nascita la bellezza o le note cromatiche del colore verde smeraldo? Non c’è modo di farlo. La persona cieca dalla nascita non ha alcun riferimento per comprendere ciò di cui stai parlando. Può fidarsi oppure no.

Allo stesso modo, come puoi interloquire di codice semantico o di usabilità e di estetica con un cliente che non ha alcun riferimento di queste cose? Al massimo puoi mostrare esempi, spiegare aneddoti, semplificare con immagini e comparazioni.

Il cliente dovrebbe fidarsi. Paga per questo. Ma spesso non lo fa. Spesso c’è qualcosa in lui che predomina, che si impone, che vuole vincere, anche se non c’è una vera battaglia da combattere.

Ed è in questi casi che il sillogismo di sopra diventa una soluzione pratica e necessaria.

La storia di Johnny e i limiti della percezione

A un ragazzo di 5 anni di nome Johnny viene offerta dai suoi amici la possibilità di scegliere tra due monete, una da un dollaro e l’altra, più piccola, da due dollari. Gli si dice che può prenderne una e tenersela. Il ragazzo sceglie la moneta più grande da un dollaro.

I suoi amici lo ritengono molto stupido perché non sa che la moneta più piccola vale il doppio. Tutte le volte che vogliono prenderlo in giro, gli offrono sempre la stessa scelta, e Johnny, invariabilmente, sceglie la moneta da un dollaro e apparentemente non impara mai.

Un giorno, un adulto che osservava tutto questo prese Johnny da parte e gli spiegò che in realtà la moneta più piccola vale il doppio di quella grande, anche se, in apparenza, può sembrare il contrario.

Johnny lo ascoltò educatamente e poi disse: Sì, lo so bene. Ma quante volte mi avrebbero fatto quell’offerta, se io, la prima volta, avessi scelto la moneta da due dollari?

È un tipico esempio di come funzione il sillogismo. Qui, i ragazzi hanno ragione. Ma chi è più fesso?

Quelli del marketing lo sapevano

Il dogma del cliente che ha sempre ragione nasce in un contesto di valutazioni pratiche sulla percezione della verità. Quelli del marketing lo sapevano. Sapevano bene di dover predisporre degli ammortizzatori psicologici per ottimizzare la gestione del cliente galvanizzato dalla fiction pubblicitaria e poi deluso dalla verità.

Il discorso è molto semplice: conviene di più dare ragione che fare tutto alla perfezione. Un po’ come quella fabbrica di automobili che dopo essersi accorta di avere prodotto un modello difettoso e pericoloso per la vita dei clienti, ha preferito (nel senso che ha trovato più conveniente) sostenere le spese per risarcire i danni a quei pochi che agivano per le vie legali, piuttosto che ritirare tutte le auto in circolazione e sostituirle con un modello senza difetti.

La ragione è dei fessi anche in questo caso.

Il cliente non ha sempre ragione

Nell’era del web, dove le decisioni di acquisto nascono dal confronto delle esperienze e non dalla fiction pubblicitaria, il cliente non ha sempre ragione. E, dunque, non è sempre un fesso.

L’approccio indennitario di cui abbiamo parlato sopra non aiuta, non fa marketing e non difende il portfolio.

Se hai un cliente che scatena una battaglia per niente o cerca di spingerti ad avere quella che per lui è semplicemente una non-visione delle cose, compromettendo la tua serenità e il tuo tempo di gestione anche degli altri clienti, forse è meglio prendere il toro per le corna. Puoi dargli un’ultima chance per allinearsi ai tuoi standard di qualità e di lavoro. Ma di più non puoi fare. Se marcisce, è meglio sbarazzarsene.

Forse, la prospettiva di Johnny ci può aiutare. Dove porta una certa scelta? Abbiamo tempo per seguire tutto, nonostante le battaglie contro i mulini? O la posizione del cliente è oggettivamente troppo assurda e invasiva sul piano della gestione globale del nostro lavoro e anche per lui è una strada che non ha sbocchi interessanti?

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L'autore

Scrittore freelance ed esperto di content marketing. La sua filosofia è che tutti, grazie al web, possono lavorare in modo più intelligente e proficuo. E soprattutto in modo più autentico. Basta sapere come fare. Da febbraio 2013 ha deciso di accettare una nuova sfida e di entrare nel team di Your Inspiration per curare l’organizzazione e la produzione di contenuti, nonché il copy e la comunicazione aziendale.

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